Ci sono, a volte, libri capaci di dare pugni nello stomaco, proprio all’imboccatura, di quelli che dopo il dolore e la nausea te li senti ancora come un malessere che si irradia nel resto del corpo.
Cos’è importante nella guerra, gli assetti, gli equilibri, le forze in campo? O c’è qualcosa di più intimo e spaventoso, la capacità di abituarsi alla guerra, di portarsela dentro, anche in tempo di pace? Che importanza possono avere le piccole storie di anonimi soldati di fronte allo schieramento di nazioni?

Più della Storia sono forse le piccolissime storie a dare significato alla guerra. Ma solo a volte, pochissime sparute volte queste storie hanno veramente significato qualcosa. Anche se lo stesso non sono servite a nulla. Rappresentano solo il sacrificio che la guerra chiede. Come se la guerra non fosse decisa dalle persone che non andranno mai in prima linea.
E allora, la cosa che veramente distingue una guerra da un’altra non è chi vince e non è chi perde, non si misura solo in termini di terre conquistate e perse ma si ritrova nelle storie di carne di chi al fronte c’è stato, ha dovuto respirare la polvere da sparo e il sangue bruciato dei compagni.

È dura la guerra, si fa presto a perdere ogni parvenza di umanità, cosa resta non è dato saperlo. Però, di tanto in tanto, ci sono degli episodi che si discostano dalla narrativa meccanica del conflitto. Sono colpi di testa, colate di colore, a volte il tentativo di riprendersi un’umanità negata o di far primeggiare la meschinità, la cattiveria. Dietro le regole. Dietro l’abbrutimento.
Questo era l’aspetto che più interessava alcuni cronisti di guerra, un po’ gufi, un po’ giornalisti, un po’ compagni di camerata. Cronisti come Ernie Pike, il reporter disegnato da Hugo Pratt e descritto da Hector Oesterheld e basato sulla figura di Ernie Pyle, l’inviato americano mandato a raccontare la Seconda guerra in Europa e Giappone. A Pyle non interessavano molto le grandi storie quanto gli scatti e gli scarti delle piccole, piccolissime storie, quelle dei soldati, dei ragazzi chiamati sotto le armi che fino al giorno prima non avevano mai pensato ad uccidere, mutilare, saccheggiare e che si trovarono catapultati dall’altra parte del mondo all’inferno.
Questi ragazzi diventati soldati grazie a una divisa e un fucile erano trasportati verso la morte e non potevano farci molto. In molti non sono riusciti a scegliere neppure la propria fine, si sono trovati la morte davanti a braccia spalancate e stop. Di loro ormai non resta nulla, sono al massimo sbiaditi ricordi e croci piantate da qualche parte.
Le storie di Pyle sono dei piccoli eroismi, dei grandi trucchi, delle bastardate per salvarsi la pelle. E in fondo sono queste le cose rimaste: come se Pyle avesse messo tutte le guerre in un colino per scoprire l’essenza, il succo della guerra, il senso dell’umanità. Perché forse è vero che “per svelare l’umanità è necessario raccontare la guerra”.
Ma queste sono solo note a margine della Storia: storielle buone per pensarci sopra e scavare un buco nel cuore.