Cosa lasciamo quando non ci siamo più, cosa rimarrà di ognuno di noi? E cosa dice di noi quello che abbiamo lasciato?
Sono domande che anche per pochi secondi nella vita si sono rivolti tutti: c’è chi decide di finire polvere nella polvere tirandosi nella terra tutto quello che aveva vissuto fuori da essa; c’è chi invece nella vita ha avuto la presunzione di modificare il mondo lasciando qualcosa indietro.
Non sappiamo se questo preoccuparsi dell’eredità lasciata al mondo sia un gesto di altruismo o di egoismo, non sappiamo se si tratta di urgenza di esprimersi o necessità di bellezza, fatto sta che qualcosa rimane e spesso, se il resto del mondo se ne accorge, continua a interrogarsi sul perché, sul messaggio quando non sul cosa, sulla sostanza. Questo è di solito ciò che capita agli artisti, quelli riconosciuti come tali o ricordati a distanza di anni dalla loro dipartita.

Poi ci sono “cose” lasciate indietro, sulla terra e nella storia, che diventano segni per capire non solo un artista o un’emozione, ma un’intera cultura. Come la Grande onda Kanagawa di Hokusai, quella enorme massa d’acqua che incorona il monte Fuji e lo minaccia nella sua immobilità, nella sua in fin dei conti piccolezza di fronte all’immensità del mare, tanto placido quanto improvvisamente tempestoso. Placido quando vuole accogliere e ribollente quando non vuole farsi fendere per superarlo. Ma può essere anche acqua e fuoco, con l’uomo in mezzo che deve sopravvivere e non sa mai se ce la farà. Ci si perde in mille interpretazioni su quell’onda lì, cercando di dividere la tradizione artistica giapponese basata su precisi canoni dall’anima dell’artista, incrociando dati, epoche e storie.

Bisognerebbe guardare tutte le vedute del monte Fuji per capire quanto fosse precursore dei tempi Hokusai (Edo, 1760-1849): la ripresa dello stesso soggetto, più e più volte, si piega all’interiorità dell’artista, che cerca libertà di essere se stesso all’interno di un mondo artistico codificato e dominato dalla tradizione, senza rinnegarla mai e riconoscendo anche la necessità commerciale dell’arte. Da una parte segue la mutevolezza naturale del paesaggio; dall’altra gli sovrappone la sua anima espressionista per strutturare tutto dentro la tradizione orientale. Questo tra la fine del Settecento e metà Ottocento, un momento in cui cresce l’interesse per l’Oriente nell’Occidente e di conseguenza anche il contrario, anche se i confini giapponesi sono ancora impermeabili ufficialmente. Se Hokusai è ispirato dall’espressione artistica europea, gli artisti europei che si trovano a conoscere le sue stampe ne vengono folgorati e riconoscono nelle sue opere un tentativo di voler cambiare il mondo, una debolezza di tanti artisti, che pur lavorando su committenza riescono a lasciare la propria impronta artistica.

Ma tutto questo lo diciamo noi, i posteri. Hokusai in realtà non era mai pienamente soddisfatto del proprio lavoro, forse era anche lui vittima di quell’incantesimo al contrario che ti fa credere di poter comunicare un’idea e poi ti beffa con la limitatezza dei mezzi e delle possibilità.
Da una parte è sempre stato geloso delle sue opere, Hokusai: refrattario in fondo alle regole, è costretto a padroneggiarle alla perfezione durante il suo apprendistato, eppure cerca sempre uno sguardo diverso e individuale per riprendere in modo differente gli attori delle sue stampe ukiyo-e, sempre più aperte a scene di vita quotidiana, delle sue illustrazioni e xilografie. Questo fino a quando non è ormai un artista maturo, le scuole non possono più insegnargli altro (o forse lui non è più disposto a imparare da chi non stima), e così decide di rompere con tutto ciò che era prima, con la sua identità di apprendista di bottega. È in quel momento che nasce Hokusai, un nome che non lo identifica più con la scuola Katsukawa e con regole non sue.

Hokusai si butta nella vita, pensa persino di lasciare la carriera artistica, e lo fa anche, ma il fermento dell’epoca che vive nutre il suo fervore, quell’urgenza che gli fa salire il sangue alla testa, quell’impossibilità di accontentarsi degli ordini degli altri, che siano maestri o committenti. Ma in Giappone dall’Europa è arrivata la prospettiva geometrica, è arrivato il Naturalismo, gli artisti sperimentano con colori e tecniche e soggetti, e Hokusai non può tirarsi indietro dalle tentazioni della realtà che parlano così dolcemente alla sua anima da artista. È nel suo periodo di massimo riconoscimento in vita che crea il ritratto del Bodhidharma, il fondatore del buddismo zen. Lo dipinge in 200 metri quadri con una scopa imbevuta in un secchio di vernice, cercando di imprimere la sua impronta su un soggetto molto tradizionale in Giappone. Quest’opera avvia un periodo di sperimentazione dimensionale: dal grandissimo, Hokusai arriva al minuscolo, da 200 metri quadri del Bodhidharma arriva alla pittura su chicchi di riso.

Grazie alla sua fama, Hokusai arriva al cospetto dello shogun Ienari, che non poteva accontentarsi della serialità delle stampe e che resta stupito dall’originalità dell’opera che gli presenta Hokusai, creata tramite il passaggio di zampe di gallina colorate su un foglio. Da quel momento sa che la sua creatività è stata riconosciuta e sa anche che i tempi sono veramente favorevoli alla sua attività, il Giappone si sta aprendo (si apriranno i confini però ufficialmente solo nel 1853), si sta contaminando, e lui ci è in mezzo. Ma percorrerà il tempo da solo, impossibilitato com’è ad accettare i compromessi dell’editoria e del commercio artistico.

In fin dei conti, non si sa se per lui fu una fortuna vivere fino a 89 anni, la vecchiaia dà l’opportunità di fare bilanci e a volte anche di aspettare la morte, preparandosi ad accoglierla per quando deciderà di entrare in casa, accolta ormai con una vecchia amica che si è intravista tante volte, da tante parti.
Da una parte tutti quegli anni hanno reso Hokusai un artista riconosciuto e apprezzato, lui sa molte più cose ma non tutta la sua vita può essere racchiusa nell’arte, quanto nei suoi tormenti alla ricerca della perfezione e le montagne russe della vita, che si diverte a rimescolare le carte ogni volta, rendendolo prima ricco e poi poverissimo, così preoccupato da dover lasciare Edo (l’odierna Tokyo) per sfuggire ai creditori del nipote.

Hokusai alla fine muore e pochi anni dopo il Giappone si apre al mondo, gli scambi sono continui ed è grazie a queste condizioni che ad artisti come Renoir, Monet, Degas e Van Gogh arrivano le opere di Hokusai, una finestra su un mondo sconosciuto, il cui mare è stato finalmente attraversato, superando quell’immensa onda.

Noi oggi possiamo fare la stessa scoperta del Giappone grazie alla biografia a fumetti “Hokusai, l’anima del Giappone” edita in Italia da Rizzoli. Per chi ha voglia di viaggiare, ma non sa dove può andare.

Qui il link per l’acquisto 👉 https://www.libreriarizzoli.it/Hokusai-L…/eai978889183333/