Abbiamo fatto qualche domanda a Silvia Rocchi sulla sua formazione, il suo lavoro e il rapporto con l’editoria. 

Un tratto personalissimo che si muove tra la materia dei pastelli a olio e la severità incisiva delle matite colorate, si colloca tra le migliori fumettiste del panorama del fumetto italiano. Silvia Rocchi è nata a Pisa, classe 1986. Ha studiato Belle Arti a Firenze e poi a Bologna e Bruxelles. È tra i fondatori dell’etichetta di autoproduzioni La Trama.
Il suo primo libro illustrato esce nel 2012 per BeccoGiallo, una biografia a fumetti di una delle più importanti poetesse italiane: “Ci sono notti che non accadono mai. Canto a fumetti per Alda Merini”. Il suo secondo romanzo edito sempre da BeccoGiallo è del 2013 e questa volta è un omaggio a Tiziano Terzani:L’esistenza delle formiche”. Nel 2015 con Francesca Riccioni, edito da Rizzoli Lizard, pubblica “Il segreto di Majorana”. Nello stesso anno ha vinto il premio Nuove Strade assegnato ai giovani disegnatori dal festival Napoli Comicon. Del 2016 è “I giorni del vino e delle rose” scritta da Diego Bertelli per Valigie Rosse
Sempre nel 2016 con Alice Milani pubblica “Tumulto”, una graphic novel che racconta il viaggio di due amiche in Ex-Jugoslavia a bordo di una Yamaha Virago.
Con “Brucia”, graphic novel uscito per Rizzoli Lizard nel 2017, vince il Premio Boscarato 2018 come miglior autrice unica. 
Del 2019 è l’albo gigante “Susi Corre”, edito da Canicola. Racconta attraverso una storia intrecciata di Susi – una ragazza ancora acerba che si affaccia per la prima volta alla complessità della vita, dell’amore e del sesso – e di suo nonno, pieno di rimpianti e disposto a tutto pur di riguadagnare piccole passioni.
La sua ultima pubblicazione è “I sepolti vivi”, edito da Einaudi Ragazzi nel 2020, ideato dallo storico Ciro Saltarelli, è un graphic novel basato su un articolo dello scrittore, pedagogista e giornalista Gianni Rodari.
Ha collaborato come illustratrice con Goethe Institut, Libera, Lo Straniero, Vice, Linus, ViaggieMiraggi. Vive a Bologna.

Il suo sito è www.silviarocchi.com.
Su IG: https://www.instagram.com/rocccchi_silvia/?hl=it

Silvia ha accettato di raccontarsi rispondendo a queste domande.

Parlaci un po’ di te, da dove vieni e qual è la tua storia? Il lavoro autoriale è la tua occupazione principale?

Come la maggior parte delle risposte dei disegnatori, è vero anche per me che tenere in mano matite o pastelli è sempre stata la mia occupazione preferita, sin dall’infanzia. 

Da ragazzina affascinata dal mondo degli shojomanga scoprii che i mangaka erano dei pazzi che con un team lavoravano alle loro storie giorno e notte. Volevo farlo anch’io. Ho poi scoperto Gipi, Mattotti, e il mondo degli autori di storie autoconclusive e questo mi ha portato a scegliere la direzione dei miei studi. Volevo essere sempre più consapevole del mezzo espressivo, quindi ho studiato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze e poi Illustrazione a quella di Bologna. Ma l’ossessione era sempre rivolta al fumetto. A oggi, dopo dieci anni dall’uscita della mia prima pubblicazione, posso ammettere con serenità che non è la mia occupazione né preoccupazione principale. Inizio a credere sempre di più nell’idea del voler raccontare qualcosa solo quando c’è una reale urgenza narrativa, uno scavo da tirar fuori, un qualcosa che può essere quanto più vicino a uno scambio tra autore e lettore. Altrimenti per me non ha senso. 

Quali sono i tuoi maestri/e?

Avendo scelto di puntare (perlomeno in un primo momento) tutto sulla formazione visiva, per molto tempo ho individuato nei vari componenti della buona vecchia Frigidaire alcuni capisaldi. Passavo senza troppi schemi dalla pittura di Casorati, Freud e co. alle incisioni di Viani, Kollwitz (scoperta grazie all’insegnante di Anatomia, una grande maestra per l’appunto), per tornare a leggere Liberatore, Crumb ma anche altri, Nanni, Vahamaki, Setola. 

Nel 2010 ho partecipato a un programma di scambio Erasmus all’Ecole Saint-Luc di Bruxelles e gli insegnanti erano spesso anche autori (Thisou Dartois, Thierry Van Hasselt, Dominique Goblet) che riuscivano con naturalezza a tenere insieme le due componenti lavorative della loro vita, essendo contemporaneamente insegnamenti e autori di fumetti o albi illustrati.

Ad un certo punto, ispirate dal bel fermento legato all’autoproduzione dei nostri stessi fumetti, con Alice Milani abbiamo fondato la nostra “etichetta” La trama (2009), eravamo dai 6 ai 4 autori come componenti “fissi” del gruppo e chiamavamo a collaborare altri nomi che riuscivamo a conoscere grazie alla presenza assidua (circa 3 anni, 2011/12/13) ai vari festival europei (mi riferisco principalmente a eventi come il Festival del Fumetto di Lucerna, Angoulême e  Bruxelles). A ripensarci oggi, quello è stato il momento di scambio più denso e importante perché mi ha fatto scoprire tantissime nuove opportunità narrative. 

Ti riconosci in uno stile specifico? Ci sono dei soggetti o dei temi che preferisci? Qual è il tuo approccio al lavoro? Disciplinato o d’impulso?

Non so riconoscermi in uno stile specifico ma sì, ci sono delle tematiche che ricorrono spesso nel lavoro. Per la precisione non riesco assolutamente (ahimè) a trattare temi felici e leggiadri. Ho iniziato raccontando la vita della Merini perché in BeccoGiallo avevano visto delle tavole che avevo fatto all’epoca, tratte da un adattamento delle Libere donne di Magliano di Tobino. Ho raccontato le morti bianche con “Brucia”. Ho cercato di condensare in un racconto breve “Susi corre” il dolore del pentimento, del rimorso e del senso di colpa. Credo che non riuscirò mai a fare un fumetto godibile e piacevole senza sentirsi più pesanti o scocciati dalla pesantezza dell’autrice. Fortunatamente il panorama è davvero vasto al momento e il mezzo è così maturo che si trovano storie per tutti i gusti e tutti i mood. Io dal canto mio, continuerò (credo, spero) a tirar fuori i mostri che mi divorano le budella sotto forma di donne sole, incomprese, angosciate e spesso senza speranze. Mi approccio così come scrivo, in maniera disordinata, provo a darmi un ritmo preciso e costante, ma finché non arriva un momento di estasi impulsiva non sento veramente mio il lavoro. Non sento di crederci veramente fino al momento in cui la disciplina si dissolve e lascia spazio alle idee più spontanee, di getto e di “gesto”. 

Cosa consigli a chi vuole diventare fumettista?

Di non leggere fumetti e basta. Se sono giovani, di guardarsi intorno, di uscire, godersi il sole e la quiete della notte quando ancora l’insonnia è produttiva e non genera mostri. Tanto il tempo lo trovano per far tutto. E poi di leggersi un manuale di storytelling, di andare alle mostre, di vedere film affini e studiare la storia della fotografia. Il fumetto è un posto nella testa dove si materializzano le storie, dove lo stile si confonde con il racconto e non importa più a nessuno quanti anni di modello dal vero hai disegnato o se il volto della protagonista ha sempre i tratti perfettamente disegnati. Perlomeno per me è così, un luogo dove è ammessa la sperimentazione, dove i canoni possono farsi e disfarsi in base a quello che racconti. 

Pensi che i dispositivi digitali possano assorbire il fumetto mettendo da parte la carta?

Già stiamo vivendo qualcosa del genere. Ci sono fumetti che escono cartacei per esigenze di mercato ma che sono nati in digitale per stare sulle varie piattaforme. Ce ne sono altri che invece “per carità le tecniche tradizionali hanno bisogno del supporto cartaceo”, non so. Altri ancora invece prediligono il lavoro digitale che viene poi stampato.

In verità – e scusami se divago-, ma questa questione la sento molto importante più come insegnante che come riflessione da autrice. Ad alcuni studenti non frega assolutamente niente di imparare a tenere un pastello in mano, ma sentono un brivido quando possono usare infiniti colori e infiniti pennelli senza possederne uno di vaio. Come al solito, bisogna stare sul pezzo ed essere pronti ad accogliere le varie richieste senza compromettere lo studio necessario per imparare la grammatica visiva e tutto quel che ne consegue. 

Com’è il mercato dell’editoria nel tuo mondo ideale?

È un mercato attento alle esigenze sia del lettore che dell’autore. Cosa vogliamo pubblicare? A oggi ne sentiamo il bisogno o il titolo completa il numero delle uscite annuali? Posso non spremere un giovane autore fino allo sfinimento e lasciare che maturi e abbia voglia di raccontare di nuovo qualcosa senza che senta nessun tipo di pressione?

Un magico mondo fatato in cui in casa editrice tutti capiscono gli storyboard versione n. 1 e ti leggono nel pensiero. Dove per pubblicare qualcosa non si aspetta il momento favorevole ma si fa e basta e se l’autore perde tempo (a godersi il sole, la notte, il cinema e la fotografia) non è un problema, che bello! 

No, non funziona così. E l’ho capito al terzo fumetto che ho fatto, da brava campagnola arrivata in uno studio pieno di tavoli scintillanti e vetrate fighe al decimo piano di un palazzo, un posto in cui per la prima volta un mio lavoro venne definito “un prodotto di mercato”. Perché è così, è normale che sia così ed è spietato come tutti gli scambi commerciali. Quelli che si avvicinano di più al mio mondo ideale sono i piccoli e medi editori, che tengono conto anche dei lettori della biblioteca di quartiere e organizzano eventi e momenti di scambio anche didattici, perché no. 

Diciamo pure che a me come autrice piace oscillare tra queste due polarità. Se la necessità del racconto la sento forte e pressante, cercherò qualcuno che abbia una rete capillare e diffusa su tutto il territorio (e terrò le dita incrociate affinché il libro venda e venga letto), se invece sto lavorando a qualcosa per il piacere che arrivi a determinati lettori andrò alla ricerca di chi mi permette di spaziare con stile e narrazione.