Mia sorella è pazza racconta la storia di Rita, ricoverata in clinica psichiatrica. Rita sorride di continuo, non parla, si muove poco. I medici non riescono ad individuare la causa di questo suo male e non sanno neanche bene come curarla. Insieme a Rita, però, c’è Francesca, sua sorella. Le sta vicino anche se il loro rapporto non è mai stato dei più semplici. In una giornata come tante, Francesca va in clinica per passare del tempo in compagnia di sua sorella. Sbucciando una mela, si provoca un piccolo taglio e Rita alla vista del sangue smette di sorridere. Questo evento provoca una catena di eventi insoliti e nuove rivelazioni. Saranno le memorie del passato a far luce sulle cause del male radicato di Rita e sulle divergenze che la separano da Francesca. 

In Mia sorella è pazza, Iris Biasio ci restituisce, con sapiente destrezza, una narrazione che si porta tutto il peso di una storia complessa come quella di Rita ma anche una giusta dose di leggerezza, intervallata ai momenti tragici del racconto. 

Iris Biasio, illustratrice e fumettista, ha creato nel 2016 il progetto NeroVite, con cui ha pubblicato racconti brevi come Storia di Mu (2016), Ommatokoita (2018) e La Casa dei Garofani (2019). Mia sorella è pazza è il suo primo libro edito da Rizzoli Lizard.

Abbiamo fatto qualche domanda a Iris per farci raccontare da lei ulteriori dettagli sulla storia e su come ha lavorato e intrecciato il racconto.

Come è nata l’idea di questa storia? Ci sono dei riferimenti autobiografici?

L’idea è nata un po’ per caso da uno spunto visivo che avevo immaginato durante una camminata nei pressi di Città Alta a Bergamo. C’era una luce molto particolare quel giorno e il bosco delle colline circostanti era particolarmente vibrante, tendente al dorato, anche se era ancora primavera. È stata quella la prima volta in cui ho immaginato le fattezze di Rita, i suoi vestiti bianchi e la poltrona di vimini. Credevo ne avrei ricavato solo una semplice illustrazione… e invece è uscito un libro intero! Inizialmente avevo previsto Rita come personaggio cameo di un’altra graphic novel che non ho mai realizzato proprio perché ho sentito che raccontare questa nuova storia era più urgente. Avevo sviluppato una suggestione molto forte per lei, quella ragazza immobile andava decisamente approfondita .
Di autobiografico c’è molto, ma mi sono sempre mossa in un terreno di mezzo tra esperienza e fiction, recuperando e filtrando tutto ciò che poteva aiutarmi a raccontare quello che volevo. Il vissuto è sempre stato al servizio del racconto, non è mai accaduto il contrario.

Qual è stato il processo di creazione del volume? Lo hai prima scritto e poi disegnato?

È stato un processo un po’ anomalo perché è nato da una serie di racconti che avevo scritto per un corso universitario, mentre in genere mi affido totalmente al disegno per iniziare una nuova storia. Come conseguenza a questo nuovo approccio, mi sono concentrata su aspetti che solitamente non consideravo e col tempo si è creata una sorta di rigida impronta metodica nel gestire i contenuti che è perdurata per tutta la prima fase di lavorazione. Solo verso la fine ho trovato le forze di archiviare quanto fatto e ho lasciato scorrere la penna da sola, senza pensarci troppo, fino a trovare la forma più “spontanea” che però nasceva da mesi e mesi di speculazioni e studio. A un certo punto ho anche pensato che avrei fatto meglio a mollare tutto, mi sentivo veramente incagliata in una palude di nozioni e concetti troppo astratti, ma è stato proprio in quel momento che si è veramente sbloccata la situazione. 

Ci sono stati dei libri che ti hanno aiutata nello sviluppo della narrazione (sia dal punto di vista della scrittura che del disegno)? Quali riferimenti ti sono stati utili?

Diversamente dal solito, sono stati pochi i fumetti che mi facevano compagnia mentre pensavo alla storia e li ho guardati soprattutto per questioni di disegno e di regia. Sono stati una sorta di numi tutelari i volumi di Bacilieri e Asterios Polyp di Mazzucchelli che erano sempre sulla scrivania, anche se non li aprivo quasi mai. Fatherland di Nina Bunjevac, Non mi posso lamentare di Paolo Cattaneo e Italo di Vincenzo Filosa erano altri ospiti stabili. Durante tutta la lavorazione del libro, ho letto soprattutto saggistica e libri di filosofia. Eugenio Borgna, ad esempio, è stato un riferimento fondamentale per capire la complessità umana dell’esperienza psicotica, mentre le memorie di Mario Tobino mi hanno ispirata per la creazione di alcuni episodi che coinvolgono i pazienti della clinica. I lavori di Hang Kang come Convalescenza e La vegetariana hanno poi dato il La a tutta la realizzazione del lavoro.

Mia sorella è pazza è un fumetto che porta con sé il peso della storia di Rita, approdata in uno stato psicotico isolante, ma anche quello di Francesca – sua sorella – che si prende cura di lei. Nel volume il tema è affrontato con sapiente maturità e parallelamente, in maniera equilibrata, si sposta su episodi più leggeri e ironici rendendone la lettura estremamente piacevole. Anche i livelli temporali sono intrecciati egregiamente, tra passato e presente, in una narrazione fluida e armonica. È stato faticoso riuscire a tenere in equilibrio tutti i piani o l’idea del libro ti era già chiara a monte?

Inizialmente sì, è stato difficile trovare la giusta relazione tra le parti e far fluire il loro ritmo. La prima stesura era molto più onirica perché avevo timore di raccontare certe cose, c’era troppa (cattiva) poesia in quello che avevo scritto e ho cestinato quasi tutto! Penso sia stato un grosso lavoro di dipanamento e traduzione alla fine del quale tutto è risultato improvvisamente chiaro.

Ho sempre cercato di costruire delle dinamiche tra i personaggi che fossero a tutto tondo e non solamente drammatiche o dolorose. La vita non è fatta di cinismo, come non è nemmeno una favola sentimentale, sono estremi che spesso risultano riduttivi rispetto alla complessità dell’esistenza (e di conseguenza del racconto). Come scrive Paul Auster, quando si scrive, «è troppo facile essere cinici».

Penso che il rischio più grande sia stato quello di romanticizzare la malattia. Di qualunque tipo essa sia, non è mai una benedizione e il fatto che possa comunque portare chi ne soffre a dei risvolti esistenzialmente fecondi è un altro paio di maniche. Porta dolore a chi la vive direttamente e a chiunque ci abbia a che fare per altre vie, perciò diciamolo chiaramente, è un’esperienza che fa sempre abbastanza schifo, ma è comunque un’esperienza umana e non va censurata. Il dolore va vissuto, gestito e raccontato, ma mai censurato e credo che anche rinarrare il dolore in chiave poetica senza alcun criterio, rifugiandosi in luoghi comuni e immagini rassicuranti, equivalga a tanto. È la cosa peggiore che si possa fare.

Ci sono delle motivazioni specifiche per cui hai deciso di utilizzare l’arancio in palette, oltre il bianco e nero?

In questo caso, l’idea di un terzo colore per la palette mi è arrivata dalla storia dell’arte. Negli anni di Accademia che ho trascorso a Venezia, ho studiato molto Munch e la sua produzione di disegni e incisioni, conoscenza che poi mi ha aiutata molto anche per orientarmi in materia di segno. Per il mio fumetto, volevo la luce estremamente grafica di certe incisioni di Munch. Inizialmente avevo optato per toni più scuri, un verde oliva e poi un marrone caldo, quasi arancione, ma grazie al consiglio di Roberto La Forgia (che ha curato anche il design della copertina) siamo approdati a questo pantone bellissimo e “dorato” che si sposa ancora meglio con l’effetto che volevo ottenere.

Il tratto è fresco, quasi schizzato. Il lettering totalmente hand-made. Queste scelte stilistiche sono dettate da un’ulteriore volontà di dare un preciso taglio al racconto?

Avendo già un racconto molto denso, non volevo lo fosse anche il segno, non in questo caso. È arrivato tutto in modo veramente naturale e man mano che la storia prendeva forma si delineava anche il suo segno. Ho iniziato a disegnare una cinquantina di pagine su carta e poi sono passata al digitale perché avevo bisogno di una velocità esecutiva che mi facesse stare al passo col flusso del racconto. Avevo tanto da dire e volevo dirlo presto. Fortunatamente sono riuscita a trovare dei pennelli digitali che mi restituissero esattamente l’effetto del mio segno analogico.

Questo è il tuo primo libro. Come prima esperienza, cosa pensi ti abbia insegnato?

Di sicuro mi ha insegnato a gestire un sacco di materiale in maniera coerente, a creare delle sintesi e ad accogliere e sfruttare molti imprevisti, ma soprattutto mi ha aiutata, una volta per tutte, a chiarire a me stessa perché racconto, perché lo faccio coi fumetti e perché mi piace tanto.