Lucca comics è finito e ogni suo aspetto è stato scandagliato da stampa, TV e blogger. Ciò che resta da dire non è sul programma, densissimo, ma sulla gente che con ogni mezzo si è portata fin là sfidando pioggia, vento e folla.

C’eravamo anche noi. Partenza intelligente, circa 6 di mattina. Circa, perché nonostante i messaggi delle 4:40 e i mi raccomando, si tarda sempre e senza neppure troppi perché, tanto di parole quell’ora lì ne escono veramente poche, a meno che tu non sia una di quelle fastidiosissime persone che amano le levatacce e non siamo certo noi. Dunque, si parte, stipati, col cane, perché non si trova nessuno che se lo tenga e soffre di sindrome di abbandono. Occhi e bocca impastati di sonno, il cane che si chiede perché mai stia uscendo così presto, ma che comunque collabora svuotando in tempo record la vescica, e via per l’autostrada insieme alle altre migliaia di persone amanti delle partenze intelligenti. E così, con intelligenza, ci siamo tutti ritrovati a giocare a tetris in autostrada.
Dopo varie e lunghe contrattazioni in abitacolo, dopo un’ora si riesce a convincere l’autista a fare una sosta pipì e caffè, l’autista ha avuto pietà del cane, non dei passeggeri. Non importa comunque, ci si ferma in autogrill. Pochi camionisti, tanti Harry Potter, personaggi di anime, furries e gente che ha pensato bene di sfruttare l’outfit della sera di Halloween per andare al Lucca comics. È evidente infatti che stiamo andando tutti lì. Tra cornetti e passeggini, si distinguono chiaramente i cosplayer per i vestiti e i nerd per i discorsi.Tutti siamo alla ricerca del pezzo unico, del tesoro da aggiungere alla collezione, della copia firmata e di almeno una giornata tra anime affini.

Tutti ci aspettiamo una bella giornata, le previsioni non mentono, giusto? Forse non mentono, però cambiano, quindi appena riusciamo a superare il cerbero polizia municipale/protezione civile/carabinieri mostrando dal finestrino solo la prenotazione del parcheggio, prenotazione dell’albergo e pass (un fiorino no?), si mette a piovere. Non è neppure una pioggerellina di benvenuto, una di quelle tipiche del Lucca comics, è proprio un temporale che si allarga in cielo e ferma il vento. È la solita nuvoletta dell’mpiegato, ci vuole bene. Nel frattempo non sono neppure le 9 e la gente è già in fila.

Code per il bagno, per entrare nei padiglioni che ancora non sono neppure aperti, code per recuperare il famoso braccialetto, la striscia di carta che fa valere il pass. Sono tutte file chilometriche. In tanti vorrebbero mettersi in fila, non sanno però dove, la mappa dell’app non è comodissima e se si chiede a forze dell’ordine, standisti e protezione civile nessuno sa nulla, spesso non sanno neppure dove sono ed è solo il primo giorno. Si fa affidamento ai veterani di Lucca, che a memoria smistano comitive di nuovi arrivati. Ci si affida al passaparola per individuare i punti dove sono distribuite le mappe di carta insieme al programma, posti rigorosamente non segnalati e diversi dai welcome desk dove si prende il braccialetto. Neanche il punto informazioni del comune ha le mappe, ce lo dice la signora che sta aprendo le porte.

Sotto la pioggia impietosa che ormai ha avuto la meglio su tutti gli strati di vestiti e dopo qualche ora di fila, finalmente siamo pronti a conquistare i padiglioni. Ci aspettano i libri di 24 ore cultura, la nuova linea comics per la quale abbiamo fatto da consulenti artistici, i fumetti di Roby e Jenny di DeAgostini libri e Fabbri editore e tutte le graphic novel alle quali abbiamo lavorato in questi mesi e che ora occhieggiano fresche di stampa negli stand delle case editrici di Panini, Bonelli, Rizzoli lizard, Mondadori Oscar INK.

Il tempo è poco, ci dividiamo, alcuni di noi resteranno per tutti e 5 i giorni, io e altri abbiamo solo oggi per visitare Lucca. Per aggirare le code decidiamo di andare al Japan town, abbiamo la grandiosa idea di andarci a piedi. Non è una decisione libera, la coda per la navetta è proibitiva.

Camminiamo per qualche chilometro sotto la pioggia incessante, il cane non si lamenta neppure più, mi maledice con lo sguardo, io ho recuperato una cerata bruttissima che si strappa subito sotto gli spallacci dello zaino già incomprensibilmente pesante. Non ci sono indicazioni, di tanto in tanto c’è solo qualche totem senza frecce che occupa un pezzo di marciapiede. Insieme ad altri bagnati disperati e cosplayer dal costume zuppo ci mettiamo in fila indiana, sembriamo zombie variopinti che barcollano alla ricerca della base.

Al Japan town dopo un’altra coda, tra Creamy e Devilman troviamo Max, che da Bologna ha portato i suoi tesori vintage e che consegna un’enorme moto di Akira a un ragazzo piemontese. C’è Pietro, che dal Mugello parte due volte l’anno con le valigie vuote per andare in Giappone e tornare con chili di gachapon e tonnellate di artbook. C’è anche Gianluca, il catanese che parla solo il dialetto del suo quartiere che si è sposato una giapponese e regala un piccolo origami con ogni oggetto che riesce a vendere. C’è Luca, chiamato affettuosamente dagli espositori vicini l’animale, per la cura che non mette nel montare il Ken da 1.500 euro che ha messo in esposizione senza tante cerimonie, un pezzo unico che da solo vale questa giornata fantozziana.

Tra passeggini, kimono e matcha, spunta un Gundam attorniato da finte studentesse asiatiche in divisa scolastica; tra le repliche delle katana appare Lamù, la stessa figure venduta a quattro prezzi diversi nel giro di qualche metro. È tutto una sorpresa, soprattutto perché c’è così tanta folla che non si riesce a vedere nulla finché non ci si è sopra.

Da questo momento in poi probabilmente si è aperto un varco temporale, perché il tempo si contrae e accorcia. In un attimo è tempo di muoversi per tornare verso la stazione, stavolta proviamo a prendere la navetta. Sono quattro autobus, in realtà un bus piccolino e tre pulmini. Fila anche qui.

Silenziosi e infreddoliti nessuno ormai protesta. Quando finalmente saliamo a bordo ancora umidi di pioggia percorriamo pochi metri e ci fermiamo subito nel traffico di ritorno. L’ansia inizia a ribollire riscaldandoci, non sappiamo se riusciremo a prendere il treno per Prato e poi quello per Bologna. Dopo 45 minuti finalmente percorriamo i 3 chilometri che ci portano dietro la stazione. Qui veniamo di nuovo intruppati in fila indiana, non importa quale treno dovrai prendere, se c’è il check in o se hai una coincidenza: devi aspettare. All’arrivo del treno per Firenze alla fila viene dato il via, partiamo scalpitando e correndo con i gomiti in fuori e i pacchi a fare da scudo all’assalto al regionale, una scena che mi ricorda la Freccia del Sud, il mitico  espresso Agrigento-Milano che raccoglieva gli emigrati da giù per portarli sul continente. Si corre tra la polizia che grida di stare attenti, i posti non sono assegnati, chi arriva prima forse trova il posto. Alla fine siamo su, ce l’abbiamo fatta. Il cane è un po’ stropicciato, noi pure. Eppure, a dispetto di tutto, siamo contenti. Perché a volte, la meta è il viaggio. E le facce che incontri.